Guillaume Tell in streaming “Uno qualcuno centomila”

Lo streaming sarà disponibile su OperaVision dalle 19:00 del 7 aprile.

Uno qualcuno centomila

 

Parigi e l’Académie Royale de musique

Per comprendere le vicende, compositive prima, editoriali e della fortuna poi, di un’opera emblematica come Guillaume Tell, occorre rifarsi alla particolare gestione del teatro musicale in Francia e particolarmente dell’Académie Royale de Musique (vulgo Opéra) che era ben diversa da quella in vigore in Italia. Negli innumerevoli teatri italiani dell’epoca di Rossini, che bruciavano novità con un ritmo impressionante, il compositore rispondeva per lo più al solo impresario e alla compagnia prescelta per la stagione nella quale era scritturato. Al di sopra e al di là non c’era che l’obbligo di rispettare i principi sanciti in ciascuno stato dalle varie censure, il cui intervento si esauriva ovviamente quasi sempre nella fase iniziale della stesura ed approvazione del libretto. Terminata la prima stagione, l’opera rappresentata, se di successo, poteva avere una sua fortunosa circolazione in altri teatri e in altre piazze, dove veniva adattata alle esigenze e ai capricci delle singole compagnie senza che l’autore si preoccupasse o potesse anche semplicemente intervenire. Capitava ovviamente che lo stesso compositore, se presente sulla piazza, venisse invitato a predisporre i cambiamenti: in questi casi poteva fornire nuovi pezzi o pagine sostitutive, anche queste per secondare le esigenze della nuova compagnia. Questo procedimento, artigianale nel modo più stretto ad autentico del termine, e che era stato comune per secoli ai musicisti – italiani e non – sia nella conduzione dei teatri, sia in quella delle cappelle musicali deputate a fornire musica sacra, raramente prevedeva ripensamenti dovuti ad esigenze estetiche qualsivoglia. Di conseguenza sono minimi i casi in cui le versioni autentiche successive alla prima delle opere di Rossini (e cioè quelle da lui stesso predisposte) evidenziano una esplicita o riservata intenzione di migliorare la precedente versione. Si può citare forse in questo ristrettissimo ambito la versione ferrarese del Tancredi che, accanto ad altri cambiamenti che certo furono richiesti dalla nuova compagnia (ma che miglioravano decisamente l’architettura interna dell’opera) introdusse il famoso finale tragico. Intervenne in questa scelta, destinata all’epoca a non aver successo né seguito, una visione culturale ben precisa, ispirata probabilmente dal letterato Luigi Lechi. Ad un soprassalto di orgoglio compositivo si può anche attribuire il fatto che, riprendendo a Napoli Matilde di Shabran, Rossini abbia riscritto quei pezzi che nella precedente versione romana aveva per la fretta fatto comporre da un illustre collega, Giovanni Pacini. Anche questa fu eccezione, dato che diverse altre opere del Pesarese circolarono con inserti dovuti ad anonimi collaboratori senza che l’autore si premurasse di fornire un proprio pezzo definitivo. Questo modo di lavorare spiega facilmente le ragioni per cui, dopo uno o due anni (quelli in cui una nuova opera poteva essere da lui stesso presentata nelle varie piazze) Rossini mostrava un profondo disinteresse (almeno compositivo) per i propri lavori che pur seguitavano a trionfare sui palcoscenici di tutta Europa. Nel 1826 nemmeno le lusinghe di Giuditta Pasta poterono indurlo a comporre un’aria sostitutiva per il finale di Tancredi, che seguitava a darsi con le più svariate ed apocrife interpolazioni. Ed è significativo che Rossini si sia invece adattato a fornire alla Diva degli abbellimenti per l’aria di Nicolini che eseguiva in luogo dell’originale. Singolare rinuncia ad ogni forma di amor proprio, si direbbe, ma che sottintendeva anche un reale disinteresse economico. Nessuna forma di diritto d’autore era infatti prevista per i compositori italiani dell’epoca per le riprese delle loro opere, per cui sarebbe stata impensabile in quei beati giorni la sublime sfrontatezza di un sommo “artigiano” della musica del Novecento, Igor Stravinskij, intento a riorchestrare o risistemare le pagine della sua prima produzione col non celato intento di recuperare i perduti diritti (il che ovviamente non esclude esiti artistici di altissimo profilo). Questa la situazione italiana che Rossini si era lasciato alle spalle all’indomani della prima di Semiramide nel 1823, nel momento in cui si era accinto ad intraprendere una nuova carriera a Parigi.

Ben diverso era il mercato musicale francese e la situazione dei teatri parigini, in particolare dell’Opéra. Qui la programmazione degli spettacoli rispondeva ad una serie di condizionamenti – tormentosi e senza fine – nell’intento di soddisfare le più svariate ed autorevoli pretese e anche nella presunzione che ogni spettacolo, e il relativo investimento finanziario, fossero destinati a durare nel tempo. Il che comportava, accanto alle sofferenze e alla obiettiva riduzione del numero degli ingaggi, anche qualche vantaggio per i compositori. All’autore che riusciva a piazzare un’opera in repertorio si assegnavano infatti prebende e pensioni a seconda del numero delle rappresentazioni raggiunte. Ma chi sostitutiva a Parigi la figura, colorita, forse rozza, ma tutto sommato bonaria, dell’impresario italiano? Impossibile definirlo o ridurlo ad una mera entità, come quella del Re o del suo delegato, il Ministro della “Maison du Roi”. In realtà al di sopra dei teatri dominava una politica occhiuta ed esigente, cui nulla sfuggiva e che seguiva la scelta dei testi da musicare, la realizzazione scenica e compositiva dell’opera e la sua presentazione al pubblico in ogni minima fase. Essa agiva direttamente o anche attraverso gruppi di lavoro o comitati (come il jury de lecture che sceglieva o bocciava i testi poetici da musicare) e al cui interno a sua volta facevano sentire il loro peso le più svariate forme di pressione (non ultime quelle degli autori locali). Altrettanto forti pressioni venivano poi anche esercitate (come avverrà sempre più diffusamente in seguito) dalla stampa, dai potentati economici e anche dai clan rivali, per cui fondamentale era l’appoggio di cui l’autore poteva disporre nelle alte sfere o la posizione che si era conquistato all’interno stesso dell’amministrazione dei teatri. Questa situazione, pur in evoluzione quando Rossini giunse e Parigi (fu durante il suo periodo che si istituì un’ulteriore commissione, un comité de mise en scène che si occupava degli allestimenti) non era certo nuova, ma risaliva ben addietro nel tempo ed era frutto della natura “regia” dell’Académie. Le conseguenze di questa conduzione all’Opéra, dato il prestigio e l’importanza che rivestiva quel teatro, furono senza fine e non circoscritte alle singole epoche. È infatti ben nota l’influenza decisiva esercitata dai gruppi contrapposti nella famosa querelle che in pieno secolo XVIII aveva opposto Gluck a Piccinni. (Pochi però saranno disposti ad ammettere che la vittoria definitiva di Gluck ha significato nel tempo ed ancor oggi una vera e propria sopravvalutazione di un autore e sottovalutazione di un altro. Esito finale e perdurante che non regge, ad avviso del sottoscritto, ad un esame degli autentici valori musicali).

Non c’è dunque da stupirsi della difficoltà dei rapporti tra i singoli compositori e l’Opéra, e della vera e propria esasperazione cui poteva essere condotto un singolo musicista. Nel tormentoso calderone di concessioni e di divieti, nel continuo rigurgito di ripensamenti e di richieste, potevano annegare o abortire capolavori progettati e inseguiti per anni, come Le Duc d’Albe o Jeanne la folle di Donizetti, bruciarsi carriere e crearsi le più svariate illusioni. Sono ben noti i crucci e le umiliazioni che dovette subire Wagner col Tannhäuser e col libretto dell’Olandese volante (accettato come testo drammatico, ma assegnato da musicare ad altro compositore) e si giustificano gli sbotti irosi di un Verdi contro quella che, con felice quanto spregiativa definizione, definì la «grande boutique» e cioè l’Opéra. Meglio andava a quegli autori che erano fatti della stessa pasta dell’amministrazione (e cioè per i quali dubbi e ripensamenti erano connaturati), come Spontini e Meyerbeer. Ambedue riuscirono e tenere in scacco l’amministrazione del teatro, il primo con le rinnovate e tortuose pretese e con le continue correzioni sui testi del Fernand Cortez e di Olympie, il secondo con l’esasperante lentezza nel decidersi a licenziare, qualche volta dopo anni, le proprie opere.

Tutto questo spiega abbondantemente il cauto approccio di Rossini all’opera francese, iniziatosi con progetti annullati, ritiri di musiche composte ed applaudite (come Il viaggio a Reims), proseguito poi con il rifacimento di precedenti opere italiane e approdato a due soli lavori “definitivi”, Le Comte Ory e Guillaume Tell. E spiega anche la determinazione di Rossini nel far approvare il (o forse meglio un) suo contratto definitivo, il quale, al pari di qualcuno dei melodrammi destinati all’Opéra, fu sottoposto a continue revisioni e rinegoziazioni, per essere partorito in versione ultima in coincidenza e in stretta connessione con la prima del Tell. Paradossalmente, in realtà, nulla ci fu di definitivo né nella musica, né nel contratto, dato che per l’opera proseguirono aggiustamenti di varia natura e peso, e quanto al contratto, la sua durata “a vita” doveva cedere dopo poco più di un anno all’urto demolitore della rivoluzione di luglio.

Sarebbe peraltro errato ridurre a motivazioni meramente finanziarie questo parallelismo tra vicende contrattuali e vicende creative. Agiva certo in Rossini (che si mostrò in alcuni momenti di durezza estrema al limite del ricatto) l’intento di creare e mantenere una posizione di potere e di prestigio tale da renderlo sufficientemente forte di fronte ad ogni pressione. Del che fece qualche volta le spese il suo diretto interlocutore, quel Visconte de La Rochefoucauld, Ministro de la Maison du Roi dal 1824, nel quale Rossini trovò un fervido ammiratore ed un potente protettore nei momenti difficili, in nessun caso tuttavia disposto a rinunciare alle proprie prerogative. Poco sappiamo dei rapporti privati tra i due, ma essi, insieme ai rapporti generali con il potere politico francese, potrebbero offrire una illuminante spiegazione di certi aspetti della sofferta vicenda creativa dell’ultimo Rossini e infine della sua definitiva rinuncia.

 

Avant la première

Gli studi più recenti e soprattutto la preparazione dell’Edizione critica del Tell e della nuova edizione dei carteggi rossiniani, se da un lato hanno sfrondato la vicenda compositiva della massima opera rossiniana da molte leggende ed imprecisioni, dall’altro hanno fornito notizie assai più sicure sull’iter creativo dell’opera e sulle vicende che seguirono alla prima esecuzione.

All’origine vi fu un libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy (il poeta che aveva già collaborato con Rossini per il rifacimento parigino del Mosè) tratto in gran parte dal Wilhelm Tell di Schiller. Malgrado la prolissità della stesura, il soggetto si prestava egregiamente, con la sua vicenda legata alla libertà dei popoli, con l’ambientazione e le possibilità spettacolari che offriva, ai gusti che si andavano imponendo nel teatro parigino di quegli anni e del nascente grand-opéra. Quando Rossini decise di musicarlo (non sappiamo esattamente in quale momento, ma certo almeno nei primi mesi del 1828) il testo era già stato scritto da alcuni anni e necessitava comunque di una revisione della quale, essendo Jouy anziano e malandato in salute, fu incaricato Hippolyte-Louis-Florent Bis, un drammaturgo di recente affermazione. L’aspettativa per la nuova grande opera francese di Rossini era tale che, mentre si procedeva alla revisione del libretto, già si pensava alla preparazione scenica e lo scenografo designato, il celebre Cicéri, ebbe l’incarico di recarsi in Svizzera a spese dell’amministrazione per ispirarsi al paesaggio locale. Intanto si sollecitavano preventivi, nella speranza di poter mettere in scena l’opera già alla fine del 1828. Quanto alla musica, Rossini stesso doveva sperare di finirla per la stessa epoca, dato che secondò per un certo periodo il progetto di darla in prima italiana a Parma nella primavera del ’29. È ben difficile però che si sia dedicato alla composizione prima di aver messo in scena all’Opéra Le Comte Ory, il cui successo, il 20 agosto 1828, dovette finalmente dare l’impulso definitivo all’opera massima, alla quale iniziò a lavorare nella quiete del Petit-Bourg, la villa di recente acquistata dall’amico Aguado. Ma proprio da quel momento iniziarono da un lato le peripezie, dall’altro la vendita e la propaganda intorno ad un prodotto che era ben lontano dall’essere compiuto. Elizabeth Bartlet, curatrice dell’Edizione critica, ha spiegato con sufficiente chiarezza questa prima fase convulsa.

Quando alla fine di agosto 1828 fu fissata una riunione del comité de mise en scène per decidere dei problemi di allestimento, Rossini non aveva consegnato alcunché della partitura. Analogamente, e sulla sola presunzione di vendere «un ouvrage de la plus grande importance» e «celui auquel il [Rossini] attache sa réputation en France» l’editore Troupenas, a cui il compositore aveva concesso i diritti di stampa, si preoccupava in settembre di trattare la cessione per la Germania al collega Artaria. Prima ancora di essere scritto insomma Guillaume Tell veniva indicato come opus maximum del suo autore. Su questa scia si mise lo stesso Rossini che nel novembre, rinunciando all’invito di dare Bianca e Falliero a Parma, proclamava:

 

Qualunque spartito meno il Guillaume Tell sarebbe indegno di figurare in una circostanza sì brillante per la mia patria.

 

Buttando a mare la sua precedente produzione e intonando il peana patriottico, Rossini bruciava le tappe della storia e batteva sul tempo gli esegeti prossimo-venturi. Mirabile esempio di chiaroveggenza, fornito peraltro a cose tutt’altro che decise. A fine novembre infatti Rossini aveva consegnato la partitura-scheletro (e cioè con le sole parti vocali e una semplice traccia della strumentazione) dei soli primi due atti e su questi i copisti dell’Opéra iniziarono a trarre i materiali per i cantanti. Un primo arresto era infatti intervenuto perché la stessa preparazione del libretto era tutt’altro che terminata e navigava anzi in acque agitate. Nei primi due atti Bis si era tenuto sostanzialmente fedele al testo di Jouy, limitandosi a qualche taglio e qualche risistemazione metrica e di dettaglio. Il vero problema si palesò per il terzo e soprattutto per il quarto atto. Durante tutto il mese di dicembre il jury de lecture e il Visconte de La Rochefoucauld si occuparono dei problemi nati soprattutto dal desiderio di snellire il finale e tutta l’ultima parte dell’opera: per conferire al tutto maggior vigore drammatico si dovevano sopprimere alcuni episodi ed evidenziarne altri. Compito da affidare a Bis, ma che andava ben oltre quello che egli aveva svolto per la prima parte. Poiché l’anziano Jouy conservava il diritto di ritirare il proprio testo (mandando così a rotoli l’intera impresa) si doveva realizzare il tutto senza urtare la sua suscettibilità. Da buon diplomatico il Visconte riuscì nell’impresa di mediazione e di convincimento. Di conseguenza Bis ebbe mano libera per sottoporre quanto rimaneva ad una revisione assai più profonda. I suoi interventi furono infatti decisivi per la seconda parte del terzo atto e soprattutto per l’intero quarto. Qui, anche dove alcuni versi e suggerimenti della prima versione furono conservati, l’apporto del giovane collaboratore fu essenziale. Su questa vicenda “dietro le quinte” fiorirono numerose leggende che finirono per chiamare in causa vari presunti collaboratori, come Armand Marrast e Isaac Adolphe Crémieux (due futuri oppositori del governo di Luigi Filippo) che avrebbero aiutato Rossini insoddisfatto a mettere a punto la famosa scena del giuramento. Alla luce dei documenti sembra da escludere un vero e proprio coinvolgimento dei due e forse la leggenda, suffragata dal Michotte, nacque posteriormente con l’intento di conferire una paternità di nobile patriottismo ad una scena-chiave che in realtà già esisteva nell’originale di Jouy. Analogamente sembra da escludere una vera partecipazione di Emile Barateau chiamata in causa, tra l’altro, da Azevedo. Probabile invece, come ipotizzato dalla Bartlet, che nella versificazione di un’altra pagina memorabile, la scena di Arnold all’inizio del quarto atto, sia intervenuto ad aiutare Rossini il primo interprete, Adolphe Nourrit, cantante eccelso, ma anche colto e raffinato. In realtà i versi di questo numero subirono varie modifiche e ripensamenti anche dopo che Rossini ne aveva composta la musica.

Fu solo a sistemazione del testo ultimata che Rossini dovette pensare a musicare terzo e quarto atto. Ciò avvenne presumibilmente nei primi mesi del 1829. Altri ritardi furono dovuti alla preparazione delle scene e alla gravidanza ormai avanzata della Cinti-Damoreau per la quale Rossini stava scrivendo il ruolo di Mathilde. Riusciti vani i tentativi di sostituire l’interprete favorita, si decise di attendere il suo ritorno sulle scene per allestire l’opera. Ma al di là dei problemi relativi alla preparazione, i più gravi ritardi furono dovuti alle trattative per il rinnovo del contratto tra Rossini e la Maison du Roi, contratto che, come si è accennato sopra, avrebbe dovuto assicurare al compositore una sistemazione a vita. Pur di ottenere il massimo, Rossini sembrava deciso a tutto. Nel mese di febbraio, quando i cantanti avevano già imparato i primi due atti e si accingevano ad affrontare gli ultimi due da poco consegnati, egli li ritirò. Le prove ripresero per l’intervento del Visconte, ma nel mese di aprile ci fu un secondo ritiro. Solo dopo questo secondo gesto, l’8 maggio, Carlo X firmava il contratto tra i più favorevoli che un compositore abbia mai ottenuto. Ma tutto questo non bastò al compositore, deciso a sfruttare oltre ogni limite la sua posizione di forza. Nel mese di luglio egli riuscì ad ottenere, in barba ad ogni precedente, la pensione che era assegnata ai compositori che avevano avuto tre opere date in prima all’Opéra e rappresentate per più di quaranta sere ciascuna. Si dovette passar sopra al fatto che delle tre opere chiamate in causa per la richiesta (Siège de Corinthe, Moïse e Comte Ory) due erano rifacimenti di precedenti lavori.

 

Intorno alla “prima”

Mentre si discuteva del contratto, la Cinti dava alla luce il suo bambino (destinato a poche settimane di vita), la stampa suonava la gran cassa con quasi quotidiane indiscrezioni, ferveva la preparazione che, come d’uso all’Opéra, riservò una serie quasi ininterrotta di cambiamenti in itinere protrattisi anche dopo la prima e sui quali vale la pena di dare alcune informazioni almeno sommarie. È intanto fondamentale distinguere, per il Tell (come del resto per molti altri lavori scritti per l’Opéra), tra i cambiamenti che furono fatti ai versi, alla linea del canto e ai dettagli minori nel corso delle prove (alle quali assistevano tanto Rossini che Bis) e che certamente furono volti a migliorare il dettato del testo sia poetico che musicale, da quelli che coinvolsero l’impianto generale dell’opera. I primi cambiamenti, abbastanza ben documentati dalle fonti (principalmente dall’autografo e dal lavoro dei copisti e in parte anche dall’edizione a stampa di Troupenas), interessano esclusivamente il musicologo e quanti vogliano ricostruire il cammino creativo di questo ultimo Rossini, così diverso da quello che poteva in pochi giorni sfornare un capolavoro per un teatro italiano.

Ben diversa è l’importanza degli altri cambiamenti, alcuni dei quali furono volti a ridurre l’eccessiva lunghezza dell’opera, ma anche a migliorarne la tenuta drammatica, e che spesso comportarono tagli e spostamenti ed anche il sacrificio di interi brani di valore musicale notevolissimo. La partitura dell’Edizione critica consente oggi di recuperare queste pagine ad libitum degli interpreti e persino di mirare ad una esecuzione la più completa possibile che comunque non potrebbe comprendere tutta la musica scritta per Guillaume Tell. A prescindere infatti da quella aggiunta in seguito per le due edizioni in tre atti (francese ed italiana), questo non sarebbe possibile nemmeno per la musica composta a Parigi per la prima stagione. Non lo consentirebbe infatti, come si vedrà più oltre, la presenza di soluzioni alternative non sovrapponibili tra loro.

Altri problemi riguardano la natura dei tagli apportati. Certamente, come si è accennato, in alcuni casi prevalse la semplice intenzione di ridurre la lunghezza dell’opera, in altri però dovette essere preponderante un intento più squisitamente drammaturgico. Non sempre è tuttavia possibile distinguere la prevalenza dell’una o dell’altra intenzione e soprattutto recuperare in toto le intenzioni dell’autore o degli autori. L’esecutore moderno si trova dunque di fronte a possibilità alternative che richiedono una libera scelta in un mare magnum di musica tutta, o quasi, di altissimo livello con un capolavoro che, se nella sua complessità può apparire unitario al massimo, nei particolari presenta una serie infinita di sfaccettature. Per orientare l’ascoltatore converrà forse, sempre parlando della prima edizione parigina e partendo da un ideale Urtext comprendente tutta la musica scritta in quel periodo, arrivare a due tappe fondamentali che corrispondono ad altrettante partiture: quella eseguita alla prima del 3 agosto 1829 (già ampiamente sfrondata) e quella (ancora più snellita) lasciata da Rossini alla vigilia della sua partenza per l’Italia all’indomani della sesta replica.

 

Poiché durante le prove del mese di luglio si era visto chiaramente che l’opera era troppo lunga, già prima della generale (più volte procrastinata e svoltasi finalmente il 1 agosto), erano stati tagliati brani importanti, come un’aria di Jemmy inserita nel corso del finale terzo (nella scena della mela) immediatamente prima del recitativo e dell’Aria di Guillaume, la celeberrima «Sois immobile». Un altro taglio, che sacrificò una pagina notevolissima, ma che giovò molto a snellire il finale dell’opera fu quello del recitativo e della preghiera di Hedwige con coro inserite nel cuore del finale ultimo. Oltre a questo furono modificati e alleggeriti diversi altri numeri dell’opera. Un discorso a parte va fatto per il tormentatissimo balletto, delizia dei parigini e croce di ogni compositore. I divertissements coreografici, pur contenendo musica di superiore qualità, apparvero subito eccessivi, per cui numerosi furono i ripensamenti, i tagli e le conseguenti modifiche, alcune delle quali comportarono anche spostamenti da un atto all’altro (tradizionalmente nei grand-opéra si andava affermando l’uso di mettere un balletto nel primo atto e uno più ampio nel terzo). Per realizzare questi cambiamenti Rossini seguitò a comporre pezzi di musica di raccordo, come il coro conclusivo del pas de trois (proprio quello spostato dal terzo atto al primo). Nemmeno nei due giorni che separarono la prova generale dalla prima ci si astenne dai ripensamenti e si decise anzi di tagliare il pas de six nel “divertissement” del primo atto. Ulteriori dettagli su questi e sui successivi rimaneggiamenti sono elencati nel riepilogo di Elizabeth Bartlet, tratto dalla prefazione dell’Edizione critica e ripubblicato in calce al presente articolo.

Dopo questi interventi l’opera fu presentata al pubblico il 3 agosto in una serata a cui partecipò il tout Paris e che segnò un trionfo per Rossini. Ad onta però dell’ammirazione tributata alla musica non mancarono riserve per il testo e in generale si ritenne che l’opera fosse comunque troppo lunga e che bisognasse intervenire per compensare e correggere in qualche modo alcuni difetti, come la debolezza (sottolineata da alcuni critici) degli ultimi due atti rispetto ai primi due. Ci si accinse dunque ad una serie ulteriore di interventi che furono realizzati in tre successive ondate (dopo la prima, dopo la seconda e dopo la sesta recita) e riguardarono in primo luogo il balletto col ritorno del pas de trois al terzo atto e l’eliminazione di un pas de deux del primo atto. In tal modo il primo atto era alleggerito. A quanto pare fin troppo (bisognava pur rispettare la suscettibilità dei danzatori e delle étoiles del balletto!), dato che Rossini decise di ripristinare in luogo dei due brani tagliati quel pas de six che era stato eliminato dopo la generale. Successivamente fu tagliato un trio per voci femminili nel quarto atto: una delle ragioni di questo taglio fu dovuta al fatto che la figura di Mathilde era stata giudicata debole e incoerente. Di conseguenza si intervenne anche nel finale ultimo eliminandone la presenza, col che l’infelice principessa scompariva del tutto dall’ultimo atto risparmiandosi una poco credibile trasformazione da aristocratica in repubblicana.

Fatti questi ulteriori alleggerimenti e ricevuta dal Re la Legion d’Onore, Rossini, partendo alla fine di agosto alla volta di Bologna, poté lasciare una partitura notevolmente snellita (della durata di circa quattro ore) che in qualche modo rappresenta una sua volontà ultima e che certamente può costituire la base più accessibile ad ogni moderna esecuzione. Ciò però non impedì che, senza contare le vicende posteriori, altri tagli e modifiche minori venissero introdotti in sua assenza anche nelle recite della restante stagione 1829-30.

Nel frattempo, dando inizio ad una storia parallela che avrà enorme rilievo nella vicenda posteriore del Tell fuori di Parigi, l’editore Troupenas si era affrettato a predisporre il materiale a stampa dell’opera. Lo spartito fu pronto pochi giorni dopo la prima. Questa rapidità, obbediente alle leggi di mercato prima che a quelle musicali, fece sì che l’edizione in molti punti non rispecchiasse alcuna delle decisioni finali prese dagli autori. Come ha scritto la Bartlet, in esso non troviamo «una versione coerente di Guillaume Tell: né il testo originale, né quello della “prima”, né quello stabilito in seguito alle revisioni dopo la “prima”». A rendere poco credibile l’edizione si aggiungano i numerosi refusi. Eppure fatalmente, salvo sporadiche e parziali eccezioni, il Tell fuori Parigi circolò sulla base di quella edizione ed è merito precipuo dell’Edizione critica offrire la possibilità di eliminarne le nefaste influenze.

 

Il Tell in tre atti

Entrata stabilmente nel repertorio dell’Académie Royale, furono i cantanti i primi a intervenire ulteriormente sul contenuto dell’opera. Già dal gennaio 1830 si stabilì nel teatro parigino l’uso di eliminare all’inizio del terzo atto la seconda Aria di Mathilde (n. 13). Ancor più legata agli umori degli interpreti la sorte della grande Aria di Arnold all’inizio del quarto. Non sempre Nourrit cantò tutta la spaventosa parte lì assegnatagli, ma solo più tardi e con altri tenori si giunse, sporadicamente a dire il vero, all’eliminazione totale del numero 18, con sacrificio di una delle pagine più eccelse dell’intero repertorio operistico. A questi problemi, legati ai singoli interpreti e alla loro maggiore o minore prestanza vocale, se ne aggiunsero altri, sempre legati alla lunghezza dell’opera. Quattro ore di musica del Tell costituivano evidentemente un ostacolo se nella stessa serata, in omaggio ad una prassi corrente, si voleva affiancare all’opera un balletto autonomo. Per questo già nella primavera del 1830 la direzione del teatro ipotizzò un’edizione in tre soli atti alla quale Rossini e Bis si accinsero nella primavera del 1831. In questa edizione rimase integro il solo secondo atto. Notevoli tagli furono invece fatti ancora una volta nei divertissements, altri numeri furono eliminati o ridotti, altri infine spostati, come la grande Aria di Arnold che andò a collocarsi all’inizio del terzo atto. Questa versione, battezzata il 1 giugno 1831, si concludeva con l’originale finale dell’atto terzo ma rimaneggiato con l’aggiunta di una conclusione basata sul pas redoublé dell’ouverture. Conclusione certamente ad effetto, ma che in nessun modo può giustificare il sacrificio del finale originale dell’opera col suo respiro cosmico.

Se di questi cambiamenti fu responsabile ultimo Rossini, certamente nel desiderio di impedire che fossero altri a manomettere il suo lavoro, altri furono dovuti negli anni seguenti a quella vera e propria rinascita della fortuna dell’opera conseguente all’assunzione del ruolo di Arnold da parte di Duprez. Il grande tenore (che aveva dato la prima italiana dell’opera a Lucca nel 1831) a partire dal suo trionfale ingresso nella parte all’Opéra nel 1837, non solo introdusse modifiche allo stile vocale che avrebbero fatto epoca (come il famoso “Do di petto”), ma anche altre manomissioni, alcune delle quali difficilmente accettabili. La versione Duprez comunque ebbe il merito di mantenere in repertorio l’opera anche quando, scomparso Nourrit ed altri della prima stagione, la sua sopravvivenza sarebbe divenuta precaria.

L’ultimo importante intervento sulla propria opera “definitiva” Rossini lo fece a Bologna nel 1840. Anche in Italia l’opera era sempre sembrata troppo lunga e in più aveva dovuto subire pesanti interventi censori per cui, dopo essere stata battezzata a Lucca con il nome del legittimo protagonista, era divenuta di volta in volta Vallace (Milano, 1836) o più spesso ancora Rodolfo di Sterlinga. In questa veste i bolognesi ammirarono l’opera il 3 ottobre 1840, in una serata che comprendeva anche il ballo in sei atti I Veneziani in Costantinopoli! Piacque l’opera, piacque il ballo, ma il tutto era evidentemente troppo lungo e, lungi dal tagliare I Veneziani, si riuscì a convincere il “concittadino” Rossini ad intervenire per ridurre ancora una volta la sua opera a tre soli atti. Probabilmente non fu estraneo a questa compiacenza il fatto che l’Arnoldo bolognese era Nicola Ivanoff, pupillo di Rossini che ne seguiva la carriera con un ruolo di vero e proprio “agente”. Poiché mancava il tempo per predisporre un’esecuzione del finale dell’edizione parigina in tre atti e per farlo imparare al coro, il compositore ne scrisse uno nuovo ancora più breve che chiudeva l’opera alla svelta e con la necessaria festevolezza. Fu questa l’unica aggiunta al Tell che Rossini operò con versi italiani. In essa Rodolfo entra in scena ad annunciare con poche battute la morte del tiranno. Segue subito il Coro festante, sempre sul tema del pas redoublé della sinfonia. Del che, a quanto pare, i bolognesi si ritennero ampiamente soddisfatti.

 

Dio e il suo genio

Non è agevole intuire cosa pensasse Rossini e cosa passasse nel suo animo di fronte alle tante manomissioni del suo capolavoro, di quell’opera alla quale aveva voluto affidare, a chiusura della carriera di operista, la sua fama imperitura. Sappiamo che si tormentò a lungo intorno alla traduzione italiana e anzi ne fece predisporre una da Luigi Balocchi, che però fu data a Dresda e non in Italia, dove prevalse invece quella di Calisto Bassi che alterava assai di più il dettato dell’originale, ma consentì (non sempre, come si è visto) di edulcorare il testo troppo audace per le censure locali: essa servì anche per i travestimenti, come il Rodolfo di Sterlinga. Al compositore ritiratosi dal teatro restava certo la soddisfazione di vedere il Tell sempre in repertorio nel mondo e soprattutto all’Opéra, dove in qualche modo fu soggetto a continue resurrezioni. Di quella di Duprez si è detto. Un’altra ce ne fu quando, dopo tante inutili sollecitazioni a ripristinare la versione in quattro atti (tra gli altri di Berlioz), questa fu riproposta il 20 agosto 1856. Nel cast sopravviveva un solo interprete del 1829, quel Prévost che all’occasione cantò ancora una volta il ruolo di Leuthold. Il ripristino dei quattro atti non fu però indolore, in quanto consentì una serie di nuovi arbitri. Rinverdì comunque il successo di una partitura sempre ammirata, anche dopo che tante opere serie di Rossini erano definitivamente uscite di repertorio. Il resto del mondo non fu da meno, anche se in Italia prevalse l’ammirazione sulla fruizione. Ancora negli ultimi anni di vita di Rossini l’opera seguitava ad essere eseguita, pur con i limiti testuali a cui abbiamo accennato. Un incontro-scontro tra la tradizione parigina e quella derivata dall’edizione Troupenas si ebbe quando l’Opéra, nel 1860, scritturò Carlotta Marchisio per il ruolo di Mathilde. La cantante volle ripristinare l’aria del terzo atto caduta in disuso a Parigi dal 1830 e il teatro predispose il testo utilizzato all’epoca dalla Cinti. Ma la Marchisio aveva in repertorio la pagina secondo la versione nota in Italia e ci si dovette adeguare alla sua volontà. L’autore viveva ormai a Parigi la sua singolarissima vieillesse e, al solito, evitava di comparire all’Opéra. I giornalisti scrissero però che le cadenze introdotte dalla cantante nelle due arie fossero state “provate” in casa Rossini. Forse era vero, forse era solo un modo di conferire autorevolezza a quella esecuzione. Un ultimo diretto contatto, se non con la sua opera, almeno con gli interpreti, Rossini lo ebbe il 10 febbraio 1868 quando l’Opéra festeggiò la 500a rappresentazione. Al termine dell’esecuzione, nella gelida notte parigina, direttore, strumentisti e il baritono Faure si recarono alla Chaussée d’Antin per fare una serenata sotto le finestre della casa del compositore malato e che di lì a pochi mesi sarebbe scomparso. Rossini poté affacciarsi brevemente alla finestra, mentre toccò ad Olympe il compito di scendere in strada per ringraziare ed invitare gli interpreti a salire nell’appartamento. Qui, a nome di tutto il personale dell’Opéra, fu offerta al compositore una corona predisposta in ricordo della serata. Pochi giorni dopo – era l’anno bisestile – l’ultimo compleanno di Rossini fu festeggiato con un massiccio profluvio di messaggi provenienti da ogni parte del mondo a testimonianza di quella gloria a cui Guillaume Tell aveva tanto e tanto giustamente contribuito. In fondo le manomissioni, così numerose e intricate, non erano che il risultato, o uno dei risultati, di quella gloria: non c’è che il materiale inerte che non si manipola. Il resto, a conferma di una vitalità enorme, fu soggetto a mutamenti ed acquisizioni tra i quali l’Edizione critica si è assunta il compito di metter ordine fornendo agli interpreti i necessari orientamenti. A fronte di arbitri da scartare con decisione, resta un ventaglio assai ampio di scelte possibili, con alcuni punti fermi tuttavia. Come spesso nel caso del Pesarese, una reazione di fronte a tante vicende esecutive è affidata ad un aneddoto, non si sa quanto autentico, narrato dal Radiciotti:

 

Un giorno, mentre si trovava a Parigi per la famosa causa, il Rossini incontrò per via il direttore dell’Opéra, che gli disse: «Maestro, spero che ora non avrete a lagnarvi di me; stasera si darà il secondo atto del Guglielmo Tell», «Ah! Davvero?» – rispose il Maestro – «Tutto intero?»

 

Vera o falsa che sia questa battuta resta il fatto che nell’opera dalle innumerevoli versioni il secondo atto era rimasto quasi del tutto integro e anzi aveva avuto (legittimamente a parer nostro) una vitalità superiore e in qualche modo autonoma. Non solo non era stato facile intervenirvi in ossequio alla libido eliminatoria e ai capricci degli interpreti, ma aveva assunto un suo superiore significato strettamente legato all’affermazione solenne della libertà e anche del numinoso. Non a caso, interrogato sul Tell, Donizetti (che evidentemente aveva sott’occhio la versione tagliata in tre atti) avrebbe esclamato: «Il primo e il terzo atto li ha scritti Rossini, il secondo lo ha scritto Iddio!». A voler trarre un insegnamento da questa supremazia e gerarchia all’interno delle stesse alte sfere, si dovrebbe concludere che di immutabile non c’è che l’opera divina, mentre quella del genio postula un contatto vitale continuo con gli interpreti e con i fruitori. Contatto che le nuove generazioni potranno stabilire con il Tell in modo assai più consapevole. Non solo grazie all’Edizione critica conosciamo al meglio la volontà dell’autore o, per essere più precisi, le sue volontà, ma il Tell non è più, come avveniva nella seconda metà del secolo scorso, un onorevole e acclamato residuato di una produzione amplissima e importante caduta in disuso e di fatto inesplorata, quando non considerata con noncuranza. La conoscenza e la rinascita delle restanti opere serie rossiniane e dei grandi capolavori che Rossini aveva scritto prima del Tell dovrebbero, con un paradosso soltanto apparente, conferire nuova e diversa vitalità anche all’opera che sola tra quella produzione era stata proclamata vitale.

 

 

Bruno Cagli

 

La seguente cronologia, tratta dalla Prefazione dell’Edizione critica del Guillaume Tell, curata da Elizabeth Bartlet, riassume la vicenda compositiva dell’opera e gli interventi effettuati nel corso delle prime recite.

1828 Entro la primavera  Rossini aveva già scelto il libretto di Jouy scritto parecchi anni prima; l’amministrazione dell’Opéra iniziò poi nel corso di quell’anno a progettarne l’allestimento.

entro novembre  Rossini scrisse almeno le parti vocali dei primi due atti (tranne il Divertissement dell’atto I).

dicembre  Mentre Bis si dedicava alle modifiche al libretto degli ultimi due atti, iniziarono le prove dei primi due coi cantanti.

1829 gennaio-febbraio  Mentre Rossini componeva gli atti III e IV, continuarono le prove coi cantanti finché non ebbero imparato gli atti I e II. In febbraio il compositore ritirò la partitura (probabilmente dell’atto III), ma le prove ripresero dopo l’intervento di La Rochefoucauld (metà febbraio).

aprile-maggio  Rossini era in trattative con Lubbert e La Rochefoucauld e giunse a minacciare di impedire la rappresentazione di Guillaume Tell. Le prove, sospese in aprile dietro l’insistenza del compositore, ripresero in maggio.

giugno  Rossini aveva finito le parti vocali e l’orchestrazione almeno degli atti I e II (e probabilmente della maggior parte del III). Scrisse forse i Divertissements entro la fine del mese.

luglio-l agosto  Rossini completò l’orchestrazione degli atti III e IV entro la fine di luglio e scrisse l’Ouverture. Le prove con l’orchestra cominciarono il 5 luglio. Fra i tagli ci furono il Récitatif obligé «Des antiques virtus» di Melcthal e lo slancio patriottico di Guillaume «Gesler proscrit ces vœux» (Récitatif après le Chœur, N. 3), il Final du Divertissement (N. 16bis), l’Air Jemmy (N. 17-IIIbis) e il Récitatif, Prière Hedwige et Chœur (N. 19a-I). In più, il Récitatif après le Duo (N. 10) fu riscritto, e il Pas de trois et Chœur tyrolien (N. 15a) modificato (N. 15) e spostato dal III al I atto. Il Pas de deux (N. 5bis-I, con l’introduzione più lunga, N. 5bis-II) fu aggiunto all’atto III, e poi anch’esso spostato al I con un’introduzione più breve. Da ultimo, il Pas de six (N. 5) fu tagliato dopo la prova generale.

agosto  Per la seconda recita, il Pas de deux (N. 5bis-I) fu tagliato e il Pas de six (N. 5) reintrodotto, mentre il N. 15 ritornò all’atto III. Rossini fece molti altri cambiamenti prima di tornare a Bologna, fra cui delle modifiche ai Nn. 3, 12, 13, 17 e 19, come pure l’eliminazione del Trio (N. 18bis).

Pubblicata il : 7 aprile 2020